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La crisi che verrà

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Alla fine degli anni Trenta, anche se la quota dell’industria italiana nel prodotto nazionale era leggermente superiore rispetto a quella dell’agricoltura, circa la metà della forza lavoro italiana era agricola e poco meno di un terzo era industriale. Il potenziale industriale totale del nostro Paese era inferiore a quello russo e ammontava a poco più del 20% di quello tedesco. Il prodotto nazionale lordo pro capite era superiore a quello russo, ma ammontava a meno del 50% di quello tedesco o britannico. E se in Germania l’analfabetismo era quasi del tutto scomparso, in Italia nel 1931 il tasso di analfabetismo era ancora del 20,9% tra i cittadini sopra i sei anni. Dopo la Grande Depressione del 1929, lo Stato però era diventato proprietario di gran parte dell’industria pesante, tanto che si trovavano in mani pubbliche il 75% della produzione di ghisa e il 45% di quella dell’acciaio, l’80% dei cantieri navali e il 90% del trasporto merci. L’Italia era cioè sulla strada per diventare una società industriale, anche se era ancora ben lungi dall’esserlo.¹

D’altronde, la Seconda guerra mondiale poté solo “frenare” il processo di modernizzazione del Paese, ma non annullare i progressi compiuti negli anni precedenti. Non a caso furono proprio le industrie statali e parastatali, insieme con le piccole e medie imprese, a guidare lo sviluppo italiano dopo la guerra. Uno sviluppo che nel giro di qualche lustro trasformò una società ancora in larga misura fondata sul settore primario in una società industriale avanzata.

Inoltre, è innegabile che l’Italia, pur essendo un Paese a sovranità limitata, sfruttando l’invidiabile posizione geografica e perfino la presenza di un forte partito comunista, seppe pure manovrare tra i due “blocchi” e “ritagliarsi” un certo spazio geopolitico, allo scopo di difendere l’interesse nazionale, anche se naturalmente vi erano “confini” che non potevano essere superati. Nondimeno, l’Italia rimaneva un Paese povero di materie prime, caratterizzato da una economia di trasformazione e quindi quasi completamente dipendente dall’estero. Una condizione che si era già dimostrata essere una delle cause della debolezza dell’Italia, sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, al di là della impreparazione bellica e degli errori del regime fascista.

Pertanto, anche considerando che l’Italia non è mai stata una potenza militare, ci si poteva solo illudere di contare qualcosa nell’ambito della Nato, fatta eccezione per quanto concerneva la logistica (basi, installazioni, aeroporti, magazzini, depositi, centri di comunicazione etc.). Il che avrebbe dovuto indurre la classe dirigente italiana a rinunciare alla velleitaria idea di potere svolgere il ruolo di junior partner degli Stati Uniti e a adoperarsi sia per creare una forza militare europea, indipendente dalla Alleanza Atlantica, sia per dar vita ad un nuovo modello di difesa nazionale e popolare. Un compito non impossibile dopo il crollo dl Muro e la scomparsa del Patto di Varsavia. Il nostro Paese scelse invece di abolire, anziché “ri-formare”, il servizio di leva, grazie anche al fatto che l’intellighenzia italiana, che si è sempre vantata della propria ignoranza della storia e dei problemi militari, non comprese (o peggio ancora fece finta di non comprendere) che in tal modo si sarebbero vieppiù indeboliti il senso dello Stato e il senso di “appartenenza” degli italiani.

D’altra parte, l’incapacità dell’Unione europea di evitare la disintegrazione della Iugoslavia non solo mostrò chiaramente la fragilità politica dell’Europa, ma offrì agli Stati Uniti l’occasione di ristrutturare la Nato, di modo che a “decidere” – e di conseguenza a distinguere tra “amici e nemici”, a stabilire cioè chi fosse “il nemico dell’Europa”- fossero gli Stati Uniti (e solo gli Stati Uniti). Cosicché la Nato da organizzazione per la difesa (almeno “sulla carta”) del continente europeo divenne una organizzazione “al servizio” della politica di potenza statunitense. Sotto questo aspetto, si riconosceva implicitamente la totale sottomissione dell’Europa politica alla superpotenza nordamericana, senza nemmeno che l’opinione pubblica europea se ne accorgesse, dato che era convinta che la fine dell’Unione Sovietica avrebbe coinciso con l’inizio di nuova era di pace e prosperità.

Non sorprende perciò che negli stessi anni in cui si gettavano le fondamenta di “Eurolandia”, l’Italia sia stata travolta da una bufera giudiziaria (Mani Pulite), che spazzò via gran parte del “vecchio” e corrotto ceto politico democristiano e socialista, e quasi messa in ginocchio da uno tsunami finanziario, scatenato dalla finanza anglosassone e che si concluse con la svalutazione della nostra moneta, dopo una inutile e costosissima difesa della lira, da parte dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Azeglio Ciampi.

Ciò permise all’oligarchia atlantista di sferrare un colpo letale al nostro Paese, costringendolo a svendere gran parte del patrimonio pubblico strategico al capitale privato, perlopiù straniero, al fine di ridurre il debito pubblico, come se quest’ultimo non fosse stato causato soprattutto dagli interessi che si dovevano pagare sul debito, dacché, nel 1981, la Banca d’Italia aveva divorziato dal Tesoro, costringendo lo Stato ad aumentare il tasso d’interesse per vendere i propri titoli ai privati (anche se solo a partire dalla metà degli anni Novanta il debito pubblico fu in larga misura “internazionalizzato”; una scelta che si è rivelata assai “infelice” con il passare degli anni e che fa dubitare della buonafede di chi la fece). Sicché, oggi il nostro Paese si trova quasi del tutto privo sia di quella “potenza” che aveva consentito ad Enrico Mattei di aprire nuove corsie geostrategiche, allo scopo di favorire la crescita dell’Italia in un’ottica geopolitica decisamente opposta a quella difesa dai circoli atlantisti, sia delle competenze politiche necessarie per contrastare efficacemente le decisioni di un’Unione europea diventata strumento del sistema finanziario occidentale.

Ma ancora più preoccupante è che la cosiddetta “seconda Repubblica” sia, in realtà, una sorta di “copertura” per l’azione di gruppi di potere che svolgono il ruolo di cinghia di trasmissione dei “mercati”. Al riguardo, è rilevante non tanto che la ricchezza si sia concentrata negli ultimi anni nelle mani di pochi (il 10-20% della popolazione), quanto piuttosto il fatto che si sia formata una oligarchia che non ha alcun interesse né a valorizzare l’apparato tecnico-produttivo in funzione di un potenziamento del settori strategici nazionali, né a rappresentare in modo adeguato e intelligente le piccole e medie imprese. Vale a dire quel tessuto produttivo estremamente articolato e differenziato che è una delle principali risorse del Paese, benché sia gravemente penalizzato dalla dissennata ed irrazionale politica di Equitalia (ammesso e non concesso che non sia una “politica calcolata”).

Peraltro, senza le “quinte colonne”, di destra e di sinistra, che si combattono per aggiudicarsi i favori della “manina d’oltreoceano”, ben difficilmente il nostro Paese si sarebbe ridotto a diventare terra di conquista per i “valvassori” tedeschi o i “valvassini” francesi. Comunque sia, tralasciando la questione di un europeismo assai male inteso (nel migliore dei casi), ma funzionale ad una tecnologia sociale capace di instaurare una specie di dittatura finanziaria, è indubbio che in Italia il processo di modernizzazione sia venuto progressivamente a identificarsi con un processo di “colonizzazione” che minaccia di vanificare decenni di lavoro, di lotte e di sacrifici del popolo italiano e che probabilmente costringerà l’Italia a svendere quel che ancora rimane del capitale strategico nazionale (Eni, Enel, Finmeccanica etc.).

Del resto, è palese che vi siano “centri di potere” che premono affinché “si adegui” l’intero sistema sociale e culturale italiano ai diktat dei “mercati”, anche promuovendo un individualismo consumistico e massificato (che è la “negazione” del singolo in quanto “individuo differenziato”) in un Paese come il nostro che non fino a molti anni fa, nonostante gli squilibri derivanti da un mutamento sociale tanto rapido quanto caotico, aveva saputo invece trarre profitto proprio dal fatto di non essere del tutto integrato nel “sistema occidentale”. Si spiega così (almeno in parte) lo stesso berlusconismo come fenomeno contraddittorio, in quanto espressione di un americanismo grossolano e superficiale e al tempo stesso come espressione, sia pure in forma distorta (e talora aberrante), di una cultura (popolare) assai diversa da quella angloamericana. Da qui pure le accuse di populismo e di “fascismo postmoderno” al centro-destra, non perché favorevole al processo di modernizzazione/”colonizzazione” del nostro Paese, bensì perché in un certo senso ritenuto un ostacolo a tale processo (come Monti sostenne in un editoriale del Corriere della Sera, poco prima di essere designato presidente del Consiglio dai “mercati”).²

Si può dunque affermare che la degenerazione del conflitto politico in una lotta tra bande mercenarie, il degrado istituzionale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, il declino del sistema educativo e dell’informazione e la progressiva decomposizione del tessuto sociale hanno consentito ai “mercati” di imporre un loro “governo”, al fine di completare l’opera di “colonizzazione” dell’Italia, in base a quanto si era “convenuto” nella famosa riunione a bordo del Britannia, non essendoci dubbi – e certo non ne avevano i partecipanti, indipendentemente da ogni “dietrologia” – su quale fosse il significato politico di quella riunione.

In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso, non essendoci né la volontà né la potenza per superare positivamente una crisi che è non solo economica, ma politica e culturale e che sembra ricacciare la Penisola al tempo di “o Franza o Spagna, purché se magna”. Tuttavia, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario che, oltre ad aver causato una “selvaggia” redistribuzione della ricchezza verso l’alto e generato un’immensa “bolla speculativa”, agisce secondo una logica mondialista che ha di mira la subordinazione degli Stati nazionali ai “mercati”, ovvero alla élite che li controlla sotto il profilo politico e strategico.

Epperò è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile sia con la crisi dell’unipolarismo americano e la nuova dottrina strategica di Washington (imperniata su un “approccio indiretto”, che lascia ampi margini di azione ai gruppi subdominanti), sia con i difetti sempre più evidenti della “forma politica” degli Stati europei.

Per questo motivo, se da un lato si deve prendere atto che il “male” che affligge l’Italia ha ormai aggredito perfino i gangli vitali della Nazione, di modo che è assai improbabile che le non poche “energie” (non solo produttive) ancora presenti siano sfruttate, secondo un piano strategico coerente e di ampio respiro, da una classe dirigente degna di questo nome; dall’altro, si deve pure riconoscere che il sistema capitalistico occidentale non può avere la capacità di controllare tutti gli “effetti” della crisi, sebbene abbia provato di essere in grado di strutturasi in funzione del caos che esso stesso genera. Ancora più significativo però è che, sia pure lentamente si faccia strada la convinzione, che le istituzioni politiche liberali, soprattutto in mancanza di una autentica forza politica nazionalpopolare (o “socialista”), non possono non fare da tramite fra gli Stati Uniti e quei gruppi subdominanti i cui privilegi non potrebbero sussistere senza l’appoggio della potenza capitalistica predominante.

Si equivocherebbe, tuttavia, il senso del nostro articolo, che altro non vuol essere se non un’interpretazione (geo)politica del “nostro presente” alla luce di alcuni tratti distintivi della recente storia italiana, qualora non si tenesse conto che (come giustamente sostiene Alexsandr Dugin)³ che l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo la si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro. Non nel senso che sia “destinata” a verificarsi, dato che è pacifico che non vi possa essere (solo) la categoria modale della necessità a fondamento dei processi storici. Ma il tramonto di una concezione deterministica della storia significa pure che non vi è alcuna necessità storica che consenta di escludere a priori che ancora una volta, come è accaduto sovente nella storia, quel che pareva essere “destinato” alla sconfitta, per un complesso di circostanze storiche e culturali, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio.

In relazione al tema che si è trattato, benché assai sinteticamente, in questo nostro scritto, ne consegue quindi che se il nostro Paese ha poca o nessuna possibilità di influire su tali circostanze, non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”.

*Fabio Falchi è redattore di Eurasia

Note:
1. Per questi dati, vedi MacGregor Knox, Alleati di Hitler, Garzanti, Milano, 2000, pp. 35-37 e 50.
2. Cfr. Lettera al Premier, Mario Monti – “Corriere Della Sera”
3. Cfr. Intervista ad Aleksander Dugin, profeta di Russia – “Rivista Strategos”

 

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